Francesco Mazzaferro. Jonas Mekas fra cinema sperimentale e letteratura artistica. Parte Prima



Francesco Mazzaferro
Jonas Mekas fra cinema sperimentale e letteratura artistica
Parte Prima


[Versione originale: marzo 2018 - Nuova versione: aprile 2019]

Fig. 1) Le memorie degli anni 1944-1955 di Jonas Mekas, intitolate I had nowhere to go nell’edizione Spector Books del 2017

Negli ultimi anni l’attenzione per la produzione letteraria e cinematografica di Jonas Mekas, nato nel 1922, tuttora vivente e molto attivo (è stata appena annunciata la sua presenza a una personale che gli viene dedicata, come novantaseenne, in questi giorni a Bergamo) si è rivelata crescente. A prima vista potrebbe essere sorprendente parlarne in questo blog, ma se il concetto di arte, a partire dalla metà del secolo scorso, si è allargato alla produzione sperimentale in video, molto si deve proprio a quest’artista. Mekas ha sempre agito nella convinzione che il cinema dovesse essere ‘liberato’ dalle convenzioni commerciali e trasformato in un’attività puramente artistica, diventando una manifestazione poetica. Non a caso, sia la Biennale di Venezia nel 2015 sia Documenta 14 a Kassel nel 2017 gli hanno dedicato un omaggio. In entrambi i casi, non si trattava di una prima volta: Mekas era stato presente alle Biennali nel 1996, 2003 e 2005 e a Documenta 11 nel 2002.

L’omaggio reso a Mekas da Documenta 14 si è articolato in varie modalità [1]: diversi suoi film sono stati riproposti al pubblico della mostra; sono state presentate la versione tedesca e una nuova edizione inglese di I had Nowhere to Go (opera contenente le memorie degli anni trascorsi in Europa), pubblicate dall’editore Spector Books di Lipsia (è l’edizione inglese che ho letto); infine lo scozzese Douglas Gordon (1966-), anch’egli un video-artist, ha proposto una versione cinematografica  proprio di tali memorie, con il titolo I Had Nowhere to Go: A Portrait of a Displaced Person. 

A Venezia nel 2015, invece, la mostra personale The Internet Saga (http://www.internetsaga.com/d.html) ha presentato a Palazzo Foscari Contarini tre nuove opere dell’artista realizzate appositamente per il web, a dimostrazione del suo costante interesse per la sperimentazione di nuove tecnologie. Durante la mostra, sono stati inoltre proiettati più di cinquecento video di Mekas, esposte centinaia di diapositive incorniciate e proiettato il video-diario autobiografico Online Diary (tuttora consultabile online http://jonasmekas.com/diary/) che Mekas ha tenuto aggiornato su una pagina internet dal 2006 fino a oggi. La mostra, a cura del duo Francesco Ragazzi e Francesco Urbano (che amano firmarsi come Francesco Urbano Ragazzi), ha visto la sua naturale continuazione in una mostra itinerante che è attualmente a Seul, dopo aver fatto tappa a Brescia e a New York.

Si potrebbero peraltro citare molte altre mostre tenutesi negli ultimi dieci anni, come ad esempio al Museo Ludwig di Colonia, alla Serpentine Gallery di Londra e al Bozar di Bruxelles. Resta il fatto che tutto questo interesse testimonia, come detto, che il concetto di produzione artistica si è sempre più allargato, estendendosi al di là delle arti visive tradizionali. L’affermarsi di tecnologie sempre più sperimentali, d’altro canto, non ha affatto cancellato la necessità  primaria, per gli artisti, di conservare memoria della loro vita e della loro arte; si può dire, anzi, che con Mekas la dimensione del vissuto sia divenuta assolutamente centrale, sia nella produzione cinematografica (quasi tutti i suoi film sono sulla sua persona) sia in quella letteraria.


Alcuni aspetti della biografia e del pensiero

La storia di Jonas Mekas è quella di un giovane lituano che nel 1944, a ventidue anni, fugge da casa insieme al fratello Adolfas (1925–2011), che gli sarà vicino tutta la vita. Lo fa per non cadere in mano alla Wehrmacht, ma, in prospettiva, fugge anche dall’Armata Rossa, che – nella sua avanzata verso Occidente – reprime ogni forma d’indipendenza. Dopo una serie di rocambolesche vicissitudini, i due fratelli sono costretti (senza essere però formalmente internati) a partecipare all’esecuzione di attività industriali a supporto dell’industria bellica in Germania. È una situazione davvero particolare, che li porta a lavorare a fianco di prigionieri di guerra, ma permette loro anche di muoversi fuori dai campi di internamento. Dopo la liberazione, Jonas e Adolfas passano sotto la tutela degli alleati prima e dalle Nazioni Unite poi, in quanto profughi di guerra. Inizia per i due un lungo periodo di attesa, un vero e proprio limbo, prima del trasferimento negli Stati Uniti, avvenuto nel 1949.

Jonas proviene da un ambiente rurale molto semplice, a cui rimarrà sempre molto legato. Gli anni passati da rifugiato segnano il suo primo incontro con la letteratura e la filosofia. Dapprima, nei campi profughi di Wiesbaden e Kassel si dedica alla poesia nella sua lingua natale, stimolato dalla vicinanza di molti connazionali profughi come lui. Ancor oggi Mekas è considerato un classico della poesia lituana contemporanea, e le sue liriche sono tradotte in diverse lingue.

Poi si apre alla cultura tedesca, grazie agli studi di filosofia che intraprende a Magonza. Già in quegli anni Mekas manifesta grande interesse per la fotografia e il cinema. Leggendo le sue memorie, si percepiscono una particolare sensibilità per le cose semplici e per il quotidiano, l’enorme curiosità per la vita delle persone e la consapevolezza dell’importanza del proprio retaggio culturale. L’esperienza di profugo lo tiene ai margini della società tedesca, ma a una distanza sufficiente per poter osservare e giudicare. Ben consapevole della forza e, al tempo stesso, della debolezza della cultura europea, arriva con il fratello a New York nel 1949, aprendosi al nuovo mondo.

A New York Mekas fa mille mestieri per sbarcare il lunario, ma partecipa anche – sia pur per breve tempo – alle lezioni di Hans Richter (1888–1976), pittore e cineasta, che ha portato negli Stati Uniti la cultura del cinema sperimentale europeo degli anni venti e trenta. Sono gli anni in cui Richter produce cinema d’avanguardia in collaborazione con artisti come Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray, Alexander Calder, Darius Milhaud e Fernand Léger: c’è quindi una chiara impronta legata al mondo dell’espressionismo, del dada e del surrealismo che viene ad essere convogliata nell’esperienza cinematografica americana del dopoguerra.


Mekas non partecipa però all’elaborazione del cinema sperimentale americano con l’ottica ardita e forse un po’ esaltata degli artisti d’avanguardia appena citati. In quegli anni non si sente ancora parte della cultura newyorkese più radicale, ma piuttosto un intellettuale di stampo tradizionale, molto cattolico, sempre legato alla sua terra d’origine, che cerca di esplorare e spiegare la propria sensibilità orientata piuttosto al senso del quotidiano, delle piccole cose e della poesia del vissuto. Inizia dunque, in parallelo, a tenere un diario scritto delle proprie esperienze americane, a cui affianca una serie di brevi cortometraggi in pellicole da 16 millimetri che gira sin dai primi anni Cinquanta. Già quei cortometraggi sono legati all’idea di un superamento delle convenzioni della cinematografia narrativa di stampo hollywoodiano. Per Mekas cinema e poesia sono l’espressione – una visiva e l’altra scritta – della stessa narrazione della propria vita.

Mekas si inserisce molto velocemente in un circolo di autori alternativi di cinema underground che si riunisce a New York, attorno al gruppo Cinema 16 (1947-1963) fondato da Amos Vogel (1921–2012): a essere perseguiti sono obiettivi di contestazione estetica radicale. Quell’ambiente lo affascina, e diviene per lui il percorso per una progressiva piena integrazione nel mondo newyorkese. È su questa base che Jonas diventa uno dei critici cinematografici ‘alternativi’ più ascoltati, e al tempo stesso più contestati: fonda insieme al fratello la rivista Film Culture nel 1954, basata sull’idea di cinema come arte; cura poi, dal 1959 al 1971, una rubrica dal titolo Movie Journal sul settimanale The Village Voice, molto diffuso nei circoli alternativi statunitensi. Tuttavia (come scrive Gregory Smulewicz-Zucker nell’introduzione alla raccolta dei suoi articoli scritti sul Movie Journal) più che un attivista dell’avanguardia Mekas è un ‘critico umanista’: “Gli scritti di Mekas dovrebbero essere letti come l’espressione di un discorso in cui la critica è legata alla consapevolezza che la cultura è importante. Oggi il cinismo post-moderno sull’umanesimo e i toni conservatori che il concetto di cultura ha ormai assunto rendono difficile comprendere che l’arte è un’attività profondamente umana, che può essere liberatoria. In questo senso, la sensibilità di Mekas è legata a una tradizione di critica culturale che risale almeno al romanticismo” [2]. Insomma, per Jonas l’avanguardia e il cinema d’avanguardia non sono la morte dell’arte e della cultura, ma segnano, al contrario, il loro recupero. Non ha alcuna remora a dire che chi critica e deride il cinema sperimentale è persona priva di cultura e incapace di ritrovare le proprie radici spirituali più profonde, e che lo spettatore tipo del cinema hollywoodiano è incapace di comprendere l’arte. Si tratta, ovviamente, di una posizione che rimarrà minoritaria e sarà tacciata, a partire dagli anni ottanta, di elitarismo. 

L’esplorazione delle avanguardie comprende la collaborazione con il Living Theatre, fondato a New York dal poeta e pittore Julian Beck (1925–1985) e dall’attrice e regista Judith Malina (1926 –2015) e l’interazione con i membri del gruppo Fluxus, creato nel 1963 dall’amico George Maciunas (1931-1978), anch’egli lituano. Diffusosi in America, Europa e Asia con artisti di vari settori come Yoko Ono (1933-), Nam June Paik (1932–2006), La Monte Young (1935-), Christo (1935-), Joseph Beuys (1921-1986) e molti altri, Fluxus è stato forse il più radicale movimento di contestazione artistica degli anni sessanta e settanta, con chiare connotazioni politiche ed estetiche. Mekas diventa anche interlocutore privilegiato di artisti che si dedicano alla produzione cinematografica sperimentale come Andy Warhol (1928-1987).

Nel frattempo continua a produrre i suoi film autobiografici, tutti rigorosamente girati con pellicole da 16 millimetri, come Walden: Diaries, Notes and Sketches (1969), Reminiscences of a Journey to Lithuania (1971), Lost Lost Lost (1976), fino a As I was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimses of Beauty (2000). Per il resto, dedica le sue energie alla creazione di archivi di film sperimentali in tutto il mondo – per evitare la perdita delle pellicole – e alla scrittura di diari e memorie letterarie. Negli ultimi anni Mekas si è anche dedicato alla produzione di cinema a mezzo di tecnologie per l’internet, mai smettendo di produrre materiale autobiografico.
  
La produzione letteraria e cinematografica di Mekas è davvero molto ampia. Tra prosa e poesia ha pubblicato più di venti titoli. A questi si sommano pellicole autobiografiche per decine e decine di ore. Mi sono dunque concentrato solamente su due testi e un’opera cinematografica, tutte di natura autobiografica. I testi sono I Had Nowhere to Go (1991) e Scrapbook of the sixties: writings 1954-2010 (2015). Il film è Lost lost lost diaries, notes and sketches (1976).


I Had Nowhere to Go (1991)

Le memorie Non avevo nessun luogo dove andare sono uno dei testi autobiografici più poetici che abbia mai avuto occasione di conoscere. Inoltre, si tratta di un libro che consiglio di leggere a chiunque voglia cercare di capire i meccanismi di circolazione delle idee tra Europa e Stati Uniti nel ventesimo secolo [3]. 

Fig. 2) Le versioni francese, spagnola, giapponese e tedesca di I had nowhere to go

Mekas comincia a lavorare al libro nell'agosto 1985: il periodo della sua vita che rivisita è quello che va dal 1944 (quando fugge dalla Lituania) al 1955 (quando comincia a trovare una sua collocazione nella società americana). Il nuovo testo è anche una riscrittura letteraria di un diario manoscritto tenuto nei giorni passati ai lavori forzati in Germania. Mekas rilegge quelle pagine molti anni dopo, tornando con la memoria ad eventi di cui aveva perso traccia e riconosce anche la presenza di alcune lacune: "Avevo dovuto omettere alcuni aspetti. Tra di essi, la ragione principale per la quale mi trovavo in Germania, nella Germania nazista" [4]. Dopo essere stato liberato dai lavori forzati, si procura una macchina fotografica; le immagini che arricchiscono il libro sono scattate proprio da lui in quegli anni (alcune sono state mostrate anche a Documenta 14 a Kassel; molte foto, eseguite con l'autoscatto, ritraggono Jonas in compagnia di amici).

Tra 1943 e 1944 il giovane Mekas (che appartiene alla minuscola minoranza religiosa protestante in Lituania e quindi è già abituato ad assumere posizioni culturali d’indipendenza) entra nella resistenza, influenzato dallo zio. Pubblica, quasi in privato, un bollettino per la popolazione locale, dove riporta, a uso dei vicini, le notizie ascoltate di nascosto dalla BBC. Viene a sapere, per sua fortuna, di essere stato individuato dai tedeschi, e riesce a eludere un rastrellamento travestendosi da donna [5]. Gli manca però l'appoggio di un gruppo organizzato per poter entrare in clandestinità. Inoltre, ha scritto poesie antistaliniste, e perciò è già nelle mire dei partigiani comunisti locali. Non vuole neppure entrare nei raggruppamenti nazionalisti di resistenza, ritenendo (a ragione) che saranno presto decimati dalle forze sovietiche, non appena queste entreranno in Lituania.

Fig. 3) Il manifesto del film I Had Nowhere to Go: A Portrait of a Displaced Person di Douglas Gordon (2016): una nuova rappresentazione del diario letterario in forma di cinema sperimentale

Per evitare di cadere nelle mani della Wehrmacht o dell'Armata Rossa, Jonas decide di fuggire con il fratello verso Vienna, dove spera di iscriversi all’università. È sintomatico come un paese lontano di grande cultura divenga per lui luogo mitico di approdo per sottrarsi alle difficoltà. Non raggiungerà mai la meta: "Oggi è l'ottavo giorno di cammino. Non sono un soldato né un partigiano. Non sono pronto, né fisicamente né mentalmente, per una vita di questo tipo. Io sono un poeta." [6] Si dirige allora verso la Germania, sperando di confondersi tra la massa dei profughi che vi si stanno riversando provenendo dalle zone che cadono sotto i russi. Appena arrivato in territorio tedesco, si rende conto della propria ingenuità: "Ieri ci hanno portato a Elmshorn, un sobborgo di Amburgo. Abbiamo protestato. Abbiamo insistito che eravamo studenti e che eravamo diretti a Vienna. Abbiamo detto che ci doveva essere un errore. Ma i tedeschi ci hanno guardato e si sono messi a ridere. 'Vienna?' Hanno detto. 'Adesso voi siete qui e rimarrete qui fin quando ve lo diciamo noi. La Germania non ha bisogno di studenti. La Germania ha bisogno di lavoratori. Ogni ingranaggio per la vittoria! I soldati ci portarono a un campo di prigionieri di guerra. Ci dissero che avremmo vissuto e lavorato con loro. Provai a protestare, ma qualcuno sussurrò che non avrei dovuto insistere troppo perché la vita umana lì valeva poco" [7]. Il regime di semilibertà a cui è soggetto non gli impedisce di visitare Amburgo, già ridotta in macerie dai bombardamenti, di constatare come l’immensa distruzione non abbia però cancellato del tutto la sua natura di città internazionale e persino di "acquistare alcuni libri in una piccola libreria vicino alla stazione di Altona" [8]. Anche nei momenti peggiori la lettura è esigenza insopprimibile.

Nelle baracche incontra un mondo molto diverso. Tra i tanti conosce un militare italiano, prigioniero di guerra. È un tale Arrigo Nerri (o almeno è così che Jonas ricorda il suo nome), gioielliere di Ferrara, cattolicissimo, che disegna continuamente e con cui Jonas condivide l'amore per l'arte. Sfogliano insieme un volume illustrato su Renoir, trovato nelle baracche francesi. Di questo Nerri conserva e pubblica l'autoritratto eseguito a matita, a cui il ferrarese ha lavorato un'intera settimana [9]. Le pagine di Mekas rivelano la capacità di scoprire episodi di umanità anche in momenti di grande sconforto. A un belga in prigionia da quattro anni vengono portati fiori di campo, in occasione del compleanno. "Fiori e macchine. Vita e miseria. Fiori di campo rossi, blu, gialli. Ci alzammo per guardarli, e ricordavamo i fiori dei nostri campi" [10]. Il guardiano tedesco che deve controllare il loro lavoro nella fabbrica durante il giorno ha settant'anni ed è una brava persona; lo chiamano tutti ‘nonno’. In realtà non capisce nulla di macchine industriali. Con la scusa della necessità di recarsi regolarmente in bagno, lascia agli operai inusitate libertà. Aiuta Jonas a imparare il tedesco; concede una pausa di un'ora a un russo per il suo compleanno [11]. Un altro tedesco, un gigante che lavora permanentemente nella fabbrica, confessa a Jonas di essere comunista e di essere sempre riuscito a nascondere la cosa ai nazisti [12]. Donne tedesche delle vicinanze portano di nascosto agli internati qualcosa da mangiare [13]. Il diario ritrae i prigionieri russi nella loro profonda umanità [14], nonostante siano quelli trattati peggio [15]. I carcerieri ucraini della prigione, invece, fanno di tutto per vendicarsi di ogni russo che si trovi nelle loro grinfie (occasione per osservare che l'uomo è la peggiore delle bestie [16]). Un amico lituano, ossessionato dal mangiare, morirà effettivamente di fame una settimana prima della fine della guerra, quando la Germania è al tracollo totale e s’interrompe la distribuzione del cibo ai prigionieri [17]. Quello descritto da Mekas è il ritratto di un piccolo mondo internazionale che s’interroga su politica e religione, dove ognuno è un uomo diverso e non necessariamente svolge il ruolo che ci si aspetterebbe sulla base delle convenzioni. Altre volte, invece, quello stesso mondo di oppressi e perseguitati mostra il peggio di sé: "Amo gli animali, ma solamente gli animali reali. Amo gli animali che non pretendono di essere uomini" [18]. È comunque un diario di prigionia nella Germania della fine della guerra mondiale molto diverso da tanti altri.

Nell'aprile 1945 la fabbrica non ha più materiale per lavorare. Così i due fratelli Mekas, insieme a una ragazza russa, sono assegnati a una famiglia di vecchi contadini, i Thiessen. È la loro fortuna, perché in campagna si può vivere dei prodotti della terra, mentre in città si fa la fame. Sebbene il proprietario della casa colonica sia pedante e molto antipatico, i fratelli Mekas si trovano benissimo con suo fratello, che chiamano ‘zio’. Jonas passa le ultime giornate di guerra tra le mucche e la lettura di Hölderlin, Gorki e Jack London. Ecco quello che scrive sullo ‘zio’ al momento del commiato: “Nostro zio, vedendo che stavamo partendo, ci disse: «Oh, voi non vi perderete. Le brave persone vi aiuteranno sempre, se vi comporterete da brave persone voi stessi». Abbiamo cercato di seguire il suo consiglio ed è sempre andata bene, fino ad ora. Se sei gentile ed onesto con i tedeschi, e lo fai sempre, otterrai il loro rispetto. Quante volte ho sentito la gente maledire i tedeschi, tutti i tedeschi. Può darsi ci sia andata bene. Penso anzi che sia proprio così. I Thiessen ci hanno considerato quasi come i loro figli. La vecchia nonna ha quasi pianto” [19]. Partono con due sacchi, uno di vestiti, l’altro di libri. La prima preoccupazione dei due Jonas è quella di consegnarsi agli inglesi, sperando che rimangano nello Schleswig-Holstein, la regione tedesca dove sono stati assegnati ai lavori forzati, e non permettano all’Unione Sovietica di occuparlo. Moltissimi lituani, lettoni ed estoni (che si trovano in Germania per ragioni diverse) non vogliono affatto tornare sotto i russi nel Baltico, dove anzi per anni la resistenza armata nazionale all'occupazione sovietica continuerà nelle foreste. Inizia per Jonas l'esperienza come profugo, in termine tecnico “displaced person [20] o più semplicemente D.P., un’esperienza che lo porterà per quattro anni attraverso la Germania, da Mürwik a Flensburg, poi a Kassel, Heidelberg, Wiesbaden, di nuovo a Kassel e poi (sono le ultime tappe prima di partire per gli Stati Uniti) a Schwäbisch Gmünd e Ludwigsburg.


Profugo in Germania

Le prime settimane nel campo profughi di Mürwik sono subito dedicate alla lettura di Lessing, Hegel, Nietzsche, Hölderlin, Spengler [21], ma anche alla conoscenza degli altri lituani che vi si vanno radunando. “Sto iniziando a scoprire che la maggior parte dei lituani che incontriamo qui nei campi sono arrivati in Germania di scelta propria. Non sono stati portati per lavorare nei campi di lavoro. Molti di loro hanno servito nell’esercito tedesco. Ma nessun vero lituano si è arruolato nell’esercito tedesco. Solamente i criminali e gli idioti ci sono entrati. Nelle baracche vicine ci sono più di venti di tali «soldati». Giocano a carte notte e giorno. Quando non giocano a carte, vanno a cercare «tesori», come li chiamano loro, vale a dire cercano di rubare ai tedeschi. Rubano tutto: biciclette, macchine, maiali, polli, tutto quel che passa per le loro mani” [22]. Jonas è un osservatore disincantato. Studia la crudeltà dei bambini di Flensburg (“non hanno pietà, sono piccoli nazisti” [23]) che si prendono gioco per la strada di giovani ex-soldati impazziti, che eseguono qualsiasi loro ordine credendosi ancora in guerra [24]. Altri soldati hanno perso la vista in guerra e sono abbandonati a loro stessi: camminano piano piano, tenendosi per mano. Alcune ragazze li aiutano a non inciampare nelle siepi [25]. Allo zoo di Amburgo osserva le scimmie che sembrano quasi odiare gli uomini, che le hanno costrette alla fame, facendo morire molte di loro [26]. Nelle città (ma anche nelle baracche), la prostituzione è generalizzata, e tra i profughi si diffondono le malattie veneree [27]. Vede le persone dormire a Kassel nei sotterranei delle case bombardate [28]. Kassel è una delle città più colpite dai bombardamenti e Jonas osserva: “Non ho la minima idea di come si possa risolvere un disastro simile. È più facile costruire un’altra città in un altro posto, e lasciare la città vecchia com’è, come testimonianza” [29].

Una volta arrivati all’ingresso del campo rifugiati di Wiesbaden (dove decidono di fermarsi) un agente della polizia militare pretende di controllare il bagaglio dei due fratelli. “Aprono una valigia – libri. Ne aprono un’altra – libri. Aprono le borse – altri libri. Scuotono la testa, non capiscono. «Dove sono le vostre cose?» «Non abbiamo altre cose». E indichiamo i libri, spieghiamo che sono le nostre cose. Ci guardano come pazzi, scuotono ancora la testa. «O.K. fateli entrare» dice il poliziotto” [30]. Finalmente a Wiesbaden hanno una stanza tutta per loro, e i loro libri, in un attico da dove possono vedere il Reno. Al campo, Jonas si dedica a organizzare le attività culturali. Nel giugno 1946 i due fratelli si iscrivono alla facoltà di filosofia della vicina Magonza. “Perché ho scelto filosofia e non letteratura? Non lo so. Non puoi imparare a scrivere in un’università. Naturalmente, non possono insegnarti neppure a pensare” [31].

Poi vengono trasferiti a Kassel e iniziano una faticosissima vita da pendolari tra il campo profughi e l’università, con viaggi di ore. Un giorno, in una pausa a Magonza, Jonas scrive: “Ma io sto seduto qui, nel caffè di questa piccola città, bevendo vino dolce del Reno e pensando: Che diavolo sto facendo qui? Perché ho bisogno di una laurea? Non ho sentito una sola frase durante tutte le lezioni che mi abbia ispirato un solo verso di poesia [32]. Tra i professori il preferito è Luigi Biagioni (che Jonas chiama Biaggioni), che tiene un corso su Pirandello. Di Biagioni sappiamo solo che fu lettore di letteratura italiana a Magonza e Francoforte negli anni Cinquanta e che scrisse numerosi articoli in tedesco su Pirandello.

Quando i profughi parlano fra di loro, cominciano a sognare, collettivamente, dell’America. “Siamo seduti e parliamo di ciò che faremmo se andassimo in America. Vaitkus: «Ho moltissimo lavoro che non ho ancora finito, lì lavorerei, lavorerei e lavorerei». Vladas: «Io mangerei. Sarebbe l’attività principale del primo giorno in America. Il primo giorno non farei nient’altro che mangiare, mangiare e mangiare. Il secondo giorno, leggerei Ibsen. Ma non lo finirei, leggerei solo l’inizio, al massimo dieci pagine. Il terzo giorno lavorerei al mio inglese, per tre ore…». Puzinas (mettendo in ordine alcuni fogli di carta): «No, non stanno mica aspettando questo genere di gente, no». Levis: «Il primo giorno mi ubriacherei. Il secondo giorno dormirei con la sbornia». Puzinas  «Probabilmente laverei i piatti». Giedraitis  «Sono cresciuto senza questi sentimentalismi… Quel che capita, capita… » [33]. Nel frattempo le autorità cominciano a distribuire moduli per far conoscere le possibilità di lavoro nei paesi che si dicono pronti a ospitare i profughi: carpentieri, ciabattini, camionisti in Marocco e in Canada [34]. Nessuno cerca poeti e intellettuali.

I due fratelli Mekas stringono amicizia con il drammaturgo Algirdas Landsbergis (1924-2004) e col poeta Leo Adams (1924-1998), affermatosi più tardi con lo pseudonimo di Leonas Lètas. Discutono di arte astratta [35] e partecipano alla polemica tra realisti e astrattisti nelle arti figurative [36], ascoltano sinfonie di Beethoven [37], e pubblicano nel 1947-1948 quattro numeri di un ciclostilato letterario in lituano, dal titolo Žvilgsniai [38].

Nel 1948 Jonas riesce a terminare una prima raccolta di liriche lituane, intitolata Idilli di Semeniskiai (il nome del villaggio in cui è nato), oggi tradotte in inglese, francese, tedesco, polacco e giapponese. Non mancano i momenti di sconforto, come in occasione del quarto natale passato fuori casa, nel dicembre 1947: “Dove è la mia famiglia, qual è la mia casa? La vita è così insicura. E tutto quello che ho scritto finora è così insignificante. Devo lavorare molto più duramente dei miei amici, Leo o Algis. Loro hanno ricevuto una buona e regolare educazione, sono cresciuti in città. La mia educazione è stata frammentaria, sempre di corsa. Quanto alla mia lingua a casa non parlavamo neppure un dialetto scritto, parlavamo un dialetto locale” [39]. 

L’ultimo anno come profugo, nel 1949, è caratterizzato da momenti di depressione (e anche da improbabili tentativi di trovare una destinazione in paesi come la Spagna, Francia e Israele, che però non accettano la sua domanda). Pesano ancora l’orgoglio e l’angoscia dell’origine contadina: “Vladas, Algis, Leo – tutti loro stanno vivendo un’estensione della loro vite a Kaunas [nota del traduttore: la capitale culturale della Lituania]. Senza alcun cambiamento drastico. Ma io e Adolfas, siamo arrivati da un mondo completamente diverso. Da un mondo di contadini in un mondo dell’intellighenzia, letterati, persone di cultura … Molto. Molto differente … E ora, provate a incollare questi due mondi, se siete capaci. (…) A volte predominano le origini, a volte prevale la nuova vita acquisita. Ventun anni … Per ventun anni ho vissuto e pensato diversamente, molto molto diversamente” [40]. Al tempo stesso, Jonas (che viene trasferito con il gruppo di amici intellettuali lituani in un nuovo campo a Schwäbisch Gmünd), si butta in una serie serratissima di letture sull’arte contemporanea in Germania e Francia [41] e studia l’estetica di Wölfflin [42]. A significare le contraddizioni di quei giorni, ecco gli appunti dell’agosto 1949 su “Alcune condizioni per la mia «futura» moglie: dovrebbe credere nei miracoli di Lourdes; dovrebbe apprezzare la musica sinfonica; non dovrebbe mai preoccuparsi del domani; non dovrebbe mai mettere in ordine il mio tavolo di lavoro” [43]. Infine, nell’ottobre 1949 arrivano i visti per gli Stati Uniti, con un’offerta per lavorare come fornai a Chicago.

Il viaggio è un momento di passaggio tra due mondi. “C’erano lacrime in alcuni occhi, mentre in altri potevo leggere pensieri melanconici. Ma nella maggior parte dei casi gli occhi erano ancora increduli, addirittura scioccati di essere realmente a bordo, e la nave si muoveva, si muoveva verso il mare – il mare aperto – e presto non saremmo più stati in Europa. Sì, finalmente la guerra era finita” [44]. “Adesso potevo davvero sentire che l’Europa si allontanava. Al tempo stesso mi assaliva una paura animale. Mi diceva che non avrei dovuto lasciare l’Europa, che stavo commettendo un qualche tradimento abbandonando la terra del mio spirito e del mio corpo. C’è qualcosa nella natura, nelle piante e negli animali, che dice loro di rimanere vicino a dove sono nati. (...) Ma poi, io penso, mentre fisso l’Atlantico in tempesta, e mentre cerco di razionalizzare e giustificare il mio allontanarmi dall’Europa, forse questo è il modo in cui l’uomo differisce da animali e piante: egli può e deve, e forse è costretto a tagliarsi dal suolo che lo ha prodotto, per poter crescere in una cultura. Deve averlo fatto già dall’epoca di Adamo ed Eva… Via dalla terra, dal Paradiso o dal grembo per fare ingresso in una cultura … La seconda nascita” [45].


New York

Quando la nave entra nella baia del fiume Hudson, i due fratelli non hanno dubbi: non andranno a fare i fornai a Chicago, ma rimarranno lì. “No, non andremo più da nessun’altra parte. Ne abbiamo abbastanza di viaggiare. Staremo qui” [46]. E si recano a Williamsburg, nel cuore di Brooklyn, nella casa dell’amico Algirdas Landsbergis, che si è stabilito lì poco prima del loro arrivo. Jonas deve subito trovare un’occupazione per potersi sfamare: dopo due settimane, lavora in una catena di montaggio. È un’attività che lo strema e che abbandona quasi immediatamente (non riesce fisicamente a sopportare lo sforzo). Inizia un lungo periodo d’incertezza e solitudine, senza un posto di lavoro fisso che lo soddisfi, e che metterà a rischio tutte le sue certezze. Anche l’interazione con il quartetto culturale di Kassel (Jonas, Leo, Algis e Adolfas sono tutti a New York) non lo soddisfa più [47], al punto che il gruppo si considera ormai profondamente diviso [48]. Non riesce né a leggere né ad avanzare nei propri progetti cinematografici (è del giugno 1950 il primo riferimento a Lost Lost Lost, che realizzerà solamente negli anni settanta). Inizia a dubitare della scelta fatta arrivando in America, soffre per la mancanza di musei, biblioteche e volumi di poesia, dell’arte e della musica dell’Europa [49]. Poi si chiede se non vi sia un legame tra quella cultura europea e tutto il male che l’Europa ha prodotto, e il tormento dei suoi pensieri è segno di grande confusione: “Hitler e Beethoven. Ad Hitler Beethoven piaceva … Forse gli piaceva proprio. Ma provate ad immaginare come sarebbe stato ancora peggiore senza Beethoven!” [50]. Infine sceglie l’America: per Jonas, al contrario di quanto pensa la maggior parte di coloro che si sono trasferiti dall’Europa, la cultura è negli Stati Uniti e non nel vecchio continente. Scrive: “Io sono qui. Ho scelto la cultura preferendola ai barbari, al fascismo e al comunismo” [51].

Ancora una volta è la cultura che lo salva: “Ho visto la mostra di Van Gogh al Museo d’Arte Moderna, sono rinato” [52]. “Oggi al Museo d’Arte Moderna abbiamo visto quattro film d’avanguardia. Mi è piaciuta soprattutto La souriante Madame Beudet di Dulac. (…) Ho visto anche Ballet Mécanique, Entrácte e Ménilmontant” [53]. Sono tutti film francesi degli anni venti. Nel 1950 aggiunge: “Siamo entrati in alcuni club di cinema sperimentale, semplicemente per capire quel che succede e per conoscere persone. Abbiamo anche mostrato loro alcune delle cose che abbiamo ripreso” [54].  E sempre lo stesso anno: “Abbiamo preso posto nell’auditorio del Museo d’Arte Moderna e l’auditorio era pieno, ed abbiamo guardato… che cosa? Non un film di Hollywood, ma un programma di film d’avanguardia. E abbiamo capito che l’America non è più l’Europa. Qui è tutto concreto, nuovo, forte. Non è affatto un sogno, quest’America. E se è un sogno, è il sogno che voglio! L’Europa è piena di discorsi vuoti, spavalderia, retorica. Tutto ciò significava qualcosa qualche tempo fa. Ma adesso sono solamente chiacchiere senza senso. Buttate pure via tutto, l’Europa sarà l’imperatore senza vestiti” [55].

Come nei migliori sogni americani, qualcosa finalmente si muove: Jonas trova posto prima come fattorino e poi come tecnico in uno studio fotografico nel gennaio 1951; la sua vita si stabilizza. Lavora ai Graphic Studios, uno dei centri tecnici più specializzati nella fotografia a colori, utilizzato dalla rivista Life e frequentato da artisti come Archipenko [56]. La sua occupazione (in gran parte, in realtà, si tratta di coadiuvare la produzione di servizi fotografici per matrimoni e battesimi, assicurandosi che le cineprese funzionino) gli dà finalmente i soldi e la tranquillità necessari per dedicarsi ai suoi progetti come cineasta sperimentale: “Quando sono in città, filmo e filmo” [57]. Decide di riprendere, con la cinepresa, la comunità d’immigranti lituana, che conosce bene, utilizzando il cinema come strumento descrittivo: “La superficie dice tutto, non vi è bisogno di analizzare i sogni; è tutto nelle vostre facce, nei vostri gesti, nulla è davvero nascosto, sepolto nell’inconscio: tutto è visibile” [58]. Nel 1953 abbandona Brooklyn e si trasferisce a Manhattan. È il segno che è ormai parte integrante del mondo newyorkese.


Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Si veda: http://www.documenta14.de/en/artists/5572/jonas-mekas.

[2] Introduzione di Gregory Smulewicz-Zucker a Mekas, Jonas - Movie Journal: The Rise of the New American Cinema, 1959-1971, New York, Columbia University Press, 496 pagine. Citazione a pagina xxv.

[3] Alla prima edizione inglese, del 1991 (per i tipi di Black Thistle Press a New York) sono seguite traduzioni in francese (Je n'avais nulle part où aller, 2004), spagnolo (Ningún lugar donde ir, 2008), giapponese (メカスの難民日記, 2011) e tedesco (Ich hatte keinen Ort, 2017).

[4] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, Lipsia, Spector Books, 469 pagine. Citazione a pagina 18.

[5] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 72.

[6] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 21.

[7] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 23.

[8] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 27.

[9] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 32.

[10] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 29.

[11] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p.37.

[12] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p.38.

[13] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p.49.

[14] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 34.

[15] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 50.

[16] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 36.

[17] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 80.

[18] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 45.

[19] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 67.

[20] In una nota del volume (a pagina 68) si ricorda la cifra davvero impressionante di due milioni di displaced persons che, sia pur per differenti motivi, non ebbero modo di rientrare subito nei paesi di provenienza e furono dunque assistiti per alcuni anni dalle Nazioni Unite in Germania. Altri sei milioni di persone furono invece fatte subito rimpatriare nei mesi seguenti la fine del conflitto.

[21] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 71.

[22] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 72.

[23] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 76.

[24] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 75.

[25] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 77.

[26] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 80.

[27] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 81.

[28] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 84.

[29] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 85.

[30] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 95.

[31] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 102.

[32] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 118.

[33] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … pp. 103-105.

[34] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 125.

[35] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 137.

[36] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 161.

[37] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 139.

[38] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 151.

[39] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 142.

[40] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 204.

[41] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … pp. 259-260.

[42] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 263.

[43] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 267.

[44] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 286.

[45] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 288.

[46] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 294.

[47] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 321.

[48] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … pp. 336-338.

[49] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 319.

[50] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 320.

[51] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 355.

[52] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 295.

[53] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 309.

[54] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 313.

[55] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 357.

[56] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 429.

[57] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 429.

[58] Mekas, Jonas – I had nowhere to go, (citato), … p. 426.








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